Capitolo 1
Ottantatré statuette di gnomi, dimensione 36 x 18 x 13 cm, disposte in file ordinate, divise cromaticamente per rallegrare un prato che per meglio dire un prato lo era stato, ma che adesso era solo una distesa di terra incolta e marrone avvilito.
Dodici di loro portavano sulle spalle un sacco, ventuno spingevano una carriola, trentatré avevano in mano fiori diversi, dieci si davano da fare con pale e piccozze, sei brandivano un annaffiatoio decorato con margherite e uno, con i pantaloni calati, mostrava il deretano con fare sprezzante.
Tutti riconoscevano il cattivo gusto di quel singolo elemento, ogni abitante del villaggio lo guardava con repulsione. Un unico capello fuori posto che incoronava l’inopportuno lavoro di una vita di un povero pensionato, vedovo da una decina di anni.
Tutte le sue stanche forze erano riposte nell’ossessiva ricerca dell’ordine perfetto, della disposizione aurea degli gnomi, una compulsiva e maniacale quanto costante indagine dell’assoluto.
Ogni giorno, dopo essersi svegliato intorno alle 5:45, investiva pochi minuti in una monotona colazione e sporadicamente investiva ancora meno tempo nell’igiene personale.
Le considerava inutili distrazioni, il giardino era disordinato e tutto il tempo che riusciva a ricavare durante la sua centellinata veglia doveva essere sfruttato a dovere.
In cucina le stoviglie ammuffite formavano infinite colonne maleodoranti, sembrava una necropoli di porcellana, un pantheon di piatti piatti e piatti piani. Di posate ce n’erano meno, dopo un inizio strafottente aveva optato per il riutilizzo: leccava a dovere la forchetta preferita e puliva sul risvolto dei pantaloni l’ormai usurata lama del coltello con il manico in legno ricevuto in gioventù come premio per essersi distinto nelle attività extracurricolari del locale gruppo di preghiera. Di cucchiai non ne voleva sentire parlare, non credeva nei cucchiai. Perché servirsi di un arnese tanto presuntuoso, che assume forme diverse per confondere, quando alla fine è molto più pratico bere direttamente la zuppa versata in una capiente tazza da tè?
Con l’ausilio di un vecchio ombrello dalla punta in osso era stato in grado di solcare in una zona incava del terreno un quadrato pressoché perfetto, nove gnomi per nove, meno uno nell’ultima fila. L’esubero di tre gnomi rimanenti era stato disposto in una messinscena che ricordava un podio. La premiazione dopo una gara. Il primo posto era occupato da Capitan Chiappa, così era stato soprannominato lo gnomo burlone e sfacciato, del tutto inutile rispetto agli altri, quindi meritevole di ricoprire un ruolo superiore. Ai suoi lati, due gnomi occupati in due diverse mansioni si dividevano la seconda e la terza posizione.
Amava le facce disgustate dei vicini, amava osservarli di nascosto mentre si domandavano perché ottanta gnomi fossero disposti in adorazione davanti a quelle rosee natiche. Amava allontanarli mentre li etichettava come guardoni, voyeur, pervertiti della domenica.
Quel giardino e quegli gnomi erano la sua unica ragione di vita da quando era rimasto solo a badare alla casa. La sua povera moglie era morta davanti ai suoi occhi in una vicenda che sa di assurdo: investita da un tir caduto dal cielo nel bel mezzo del giardino.
Il piccolo villaggio in stile campagnolo-postmoderno era situato a 15 chilometri da qualunque centro urbano di minime dimensioni. Una sola strada collegava questo paradiso per pensionati al mondo esterno e consisteva in uno strettissimo vialetto malamente asfaltato, che presentava parecchi tratti sterrati a causa di un’insofferenza generale da parte del Consiglio Allargato per la Pace Rurale Assoluta (organo collegiale che si occupava di tutto quel che concerneva il benessere del villaggio) nell’investire soldi per la sua manutenzione.
Nel villaggio si poteva trovare: un mediocre supermercato, un calzolaio, una sartoria, un ristorante preso recentemente in gestione da una nuova famiglia e un chiosco di giornali.
Il supermercato era settimanalmente rifornito dai contadini locali che vi portavano tutto quello che producevano: frutta e verdura, carne, farina, olio e uova. Aveva anche un reparto piuttosto fornito di detersivi e oggetti per pulire casa e, vicino alla cassa, su un tavolo bianco alto meno di un metro, ogni mese arrivava una novità tecnologica.
L’ultima in ordine d’arrivo era stata la prima tv a schermo piatto che il villaggio avesse mai visto. Nessuno si era però fidato della mancanza del tubo catodico e l’oggetto era rimasto invenduto.
Il calzolaio e la sartoria facevano per lo più lavori di riparazione, dato che nessun abitante investiva denaro nell’acquisto di una scarpa o di un vestito nuovo da almeno venticinque anni. Forse è questo il bello dell’invecchiare, si può restare fermi, congelati con lo stesso vestito addosso che non si rovina e non cambia mentre sotto la propria pelle si deteriora, logora e decade.
La nuova famiglia ad aver preso in gestione il ristorante era subentrata a una famiglia turca che aveva deciso di lasciare il locale a causa dello scarso interesse riscosso negli abitanti dalla loro cucina tradizionale. Borek e kebab cementificavano la digestione di un intero villaggio dove l’occlusione intestinale faceva già da padrona incontrastata. Non a caso, il prodotto che andava per la maggiore presso il mercato era un infuso di erbe che prometteva di farti correre in bagno entro pochi minuti. Risultato garantito se eri un giovane aitante nel fiore dell’età. Se avevi l’età media degli abitanti locali sarebbero stati necessari un paio di giorni, risultato comunque apprezzatissimo da tutti (erano queste piccole vittorie a renderli felici di svegliarsi al mattino).
Si sapeva poco delle origini della nuova famiglia, solo che era composta da quattro elementi tutti molto gentili. La madre e il padre amavano cucinare e si amavano cucinando. La sorella della madre, single da sempre, gestiva con maestria l’accoglienza degli ospiti e l’unica figlia era anche l’unica abitante sui vent’anni residente nella zona.
Non era bellissima, ma aveva tutte le carte in regola per diventarlo. Purtroppo non era spronata a curarsi, a pettinare i lunghi capelli biondi, vestire con abiti più adeguati al suo fisico esile. Mancava di cura verso la propria pelle e, lavorando a tempo pieno in un ristorante, il suo viso risultava lucido e oleoso. Le mani lavavano centinaia di stoviglie senza l’ausilio di guanti e quindi erano secche e pallide. I piedi e le gambe erano già segnati dalle infinite ore in piedi, dietro a un bancone, a soddisfare le voglie alcoliche di bavosi anziani.
Quel non curarsi era comunque una scelta ragionata. Le sue giornate erano costantemente condite da fischi, apprezzamenti non richiesti e commenti fuori luogo da parte del reparto geriatria che soggiornava nel locale. Non voleva immaginare cosa sarebbe successo se si fosse truccata o lavata con continuità.
Insomma, il villaggio era una comunità autonoma. Il medico che seguiva la salute di tutti gli abitanti aveva il suo studio in una fattoria poco distante ed era anche il miglior produttore di mais della zona. Il che voleva dire che se qualcuno stava male o desiderava del buon mais doveva comporre un solo numero di telefono e, in pochi minuti, una Vespa azzurra d’epoca sarebbe giunta scoppiettando a dispensare ricette e pannocchie.
Niente disturbava questa pace, niente avrebbe mai interrotto il normale fluire delle pigre giornate se non quella remota eventualità assurda.
Il tir.
Capitolo 2
Era una mattina come mille altre e il sole pallido era andato a nascondersi dietro una coltre bianca ovatta. La temperatura era distaccatamente fredda, lontanamente calda, simpaticamente mite. L’umidità permetteva appena il formarsi della rugiada sui fiori ma non il proliferare delle zanzare (per il momento). Non c’era un filo di vento e il silenzio dominava incontrastato, interrotto solo dal ruminare di dentiera di qualche anziano durante la colazione.
Louis e Magda erano in giardino. Come tutte le mattine si dividevano equamente i compiti da svolgere. Magda si era messa di buona lena sull’ultima pagina del giornale acquistato da Louis, quella del sudoku. Mentre era impegnata a decifrare l’ancora inspiegabile (nonostante gli anni di allenamento) passatempo e capire quali numeri inserire, Louis schiacciava dei minuscoli pisolini. Non appena Magda si addormentava e iniziava a russare, Louis si svegliava e le sottraeva delicatamente dalle mani il giornale per leggerlo. Questa alternanza funzionava alla perfezione, dato che entrambi soffrivano di letargia cronica e quello era il loro modo preferito di impiegare il lunedì. Il lunedì era l’unico giorno della settimana in cui l’edicolante veniva rifornito di riviste e quotidiani e spesso riceveva in blocco anche tutte le uscite della settimana precedente (che quasi nessuno leggeva, ma che venivano utilizzate dagli allevatori di galline per impacchettare le uova). Oltre a questa intensa attività, il lunedì era la giornata che Louis dedicava al riprendersi dalle fatiche domenicali.
La domenica era la giornata che lui odiava di più e non perché Magda iniziasse a cucinare verso le 10:30 (a Louis piaceva la cucina di Magda nonostante fosse completamente priva di sapori, era rassicurante sapere che ogni pietanza avrebbe avuto sempre la stessa insipidezza, poche cose lo infastidivano quanto le sorprese e i cambiamenti nella routine), ma perché di domenica era costretto a risolvere le faccende che durante la settimana aveva volutamente sottovalutato.
Pulire la vasca delle rane era una faccenda che Louis sottovalutava ben volentieri tutta la settimana, dato che a lui le rane non piacevano. Erano un vezzo di Magda, che aveva insistito per averle. Non che lei fosse appassionata di quegli anfibi. Le aveva volute per creare invidia nei vicini.
Louis non aveva obbiettato più di tanto, perché sapeva che non c’era boria in quel suo desiderio. In un’esistenza governata da minuscole vittorie, avere un segno di distinzione così particolare significava entrare prepotentemente nelle discussioni del villaggio. E la vasca delle rane, suo malgrado, era stata capace di dominare l’attenzione pubblica per almeno due mesi, meritando persino un’accesa discussione durante la consueta riunione mensile del Consiglio Allargato per la Pace Rurale Assoluta (più comunemente chiamato CAPRA).
Louis, dal canto suo, non disse mai a Magda quanto quelle rane lo rendessero nervoso.
Optò dapprima per uno sciopero bianco, ignorando completamente la cura e la pulizia di quel viscido mondo. Le rane però ben presto avevano reso la vasca un luogo maleodorante e invaso di liquami gelatinosi creati per proliferare in sterminate figliate.
Per sopraggiunta, invece di soli girini, la vasca si era popolata anche di ben più fastidiose zanzare (insetti del tutto nuovi per il villaggio).
Così Louis si ritrovò a odiare le rane per il loro odore e il continuo gracidio e, ancora di più, si ritrovò a odiare le zanzare per il loro ronzio e il molesto pungere tutto quello che si tratteneva in giardino. E Louis passava molto tempo in giardino.
Magda era invece piuttosto serena, le zanzare la ignoravano, come se avessero rinunciato all’idea di cercare nutrimento in mezzo a tutte quelle rughe. La loro presenza aveva invece dato vita ad altre quattro settimane di discussioni nel villaggio e la cosa, anche se non propriamente positiva, era divenuta ugualmente motivo di orgoglio per Magda.
Le rane non avevano nulla da obbiettare. Questo appetitoso snack volante piaceva, al massimo le avrebbero preferite un poco più in carne ma, data la scarsità del mangime offerto (le braccia e le gambe degli anziani del villaggio erano oltremodo ossute), avevano deciso di accontentarsi.
Così, mentre quella mattina Louis allontanava le prime striminzite zanzare con il giornale fresco di edicola e Magda alternava il sudoku soporifero a una sistemata alla vasca, un enorme autotreno stracolmo di un carico eccezionale viaggiava alla massima velocità verso la collina che separava il villaggio dall’autostrada vicina.
L’autista del tir era crollato dal sonno e il suo piede era rimasto pesante sopra l’acceleratore. Aveva sfondato i guardrail pressoché inesistenti – errore grossolano commesso dal Consiglio Allargato per la Pace Rurale Assoluta (CAPRA) che aveva investito i soldi dei cittadini in qualcosa di meno protettivo ma più spettacolare: la più grande palla di elastici della regione – e si stava dirigendo incurante verso il fitto bosco di alberi sulla collina che separava il loro mondo protetto dal mondo bastardo.
Questo era stato l’errore definitivo commesso dal Consiglio Allargato per la Pace Rurale Assoluta: l’aver pensato che quell’appezzamento di arbusti gracili e rassegnati fosse una protezione sufficiente non solo verso i curiosi, ma anche contro ogni possibile autista di autotreni addormentatosi al volante.
Non era nemmeno stata presa in considerazione la poca voglia di vivere degli alberi in questione. Del resto, gli alberi non parlano facilmente di come si sentono e non possono andare in terapia per cercare di capire i motivi della loro depressione. Una decina di anni sono abbastanza per capire come sarà la tua esistenza quando sei un albero. Una volta cresciute le radici non è che puoi andare in giro più di tanto. Alcuni alberi adorano viverne anche trenta, cinquanta di anni, pure un secolo se butta bene perché proliferano in zone ricolme di attività interessanti: ruscelli melodiosi, scoiattoli buontemponi, ampie vallate incantevoli.
Gli alberi in questione, invece, non facevano altro che annoiarsi. La vista dalla collina era di un noioso inenarrabile. Peggio era l’essere costretti a seguire le attività svolte dagli anziani del villaggio. Sempre le stesse, tutti i giorni. Molti arbusti avevano sperato nell’arrivo di un virus che ponesse fine alle loro esistenze ma niente, pareva che nemmeno le malattie fossero interessate a visitare quelle zone.
Così il tir fu visto come un luminoso salvatore, il tanto agognato addio.
Con un ultimo sorriso a malapena percettibile sotto la corteccia, avevano abbandonato ogni resistenza rimasta nelle radici e avevano accolto il tir lasciandosi estirpare come fuscelli. Il tir proseguì sentendo solo un lieve solletico, utilizzando la collina come un trampolino. Il volo fu spettacolare e solo gli sfortunati alberi rimasti illesi ebbero la possibilità di osservarlo. L’ascesa fu eccellente, il tir divenne un arcobaleno di lamiere che solcava il cielo. Chinò il vano della motrice attratto dalla forza di gravità e, come in una gara di tuffi, concluse il viaggio schiantandosi in posizione perfettamente verticale sopra un’attonita Magda, unica altra testimone del volo spettacolare, appiattendola insieme a tutte le rane.
Louis non aveva sentito nulla, aveva oramai l’abitudine di spegnere l’apparecchio acustico per ignorare il rumore di sottofondo generato dalle rane. Si era accorto della comparsa del Tir solamente per l’ombra che gli si era proiettata sul giornale.
Richiuse il quotidiano con fare stizzito, convinto di dover litigare con una nuvola carica di pioggia. La sorpresa fu sconvolgente, quando si rese conto dell’immenso totem che si ergeva nel suo giardino. Più precisamente, che si ergeva sopra la vasca delle rane (cosa che lo rese felice) ma a essere ancor più precisi, si ergeva esattamente sopra la moglie (cosa che lo gettò nel più totale sconquasso).
Mentre si accasciò al suolo in preda alla disperazione e mentre il tir si stava accartocciando su sé stesso, il destino decise di accanirsi contro di lui e aprì i portelloni posteriori del tir, favorendo la fuoriuscita del carico.
I vicini dissero che fu una scena tanto toccante quanto bizzarra: Louis in lacrime impegnato a prendere a pugni e strappare a mani nude l’erba del prato mentre una pioggia di gnomi da giardino, accuratamente imballati, si rovesciava sulla scena della disgrazia, rendendola quasi comica.