logo yomer

La Bottega delle Cose Abbandonate


Storia breve, donata a Francesca Centonze perché ci realizzi quello che vuole.

Vengo fatto accomodare in quella che dovrebbe essere una sala d’aspetto, allestita alla bella e buona in una stanza piena di animali liberi e ninnoli di ogni sorta, al piano terra di una cascina ad abbastanza chilometri da qualunque centro abitato. Nel parcheggio, tre cani enormi si mettono a difesa della mia macchina, con fare da guardia in una posa plastica di eterna fedeltà.
Francesca, questo il nome della signora di una certa età e autrice di tutto ciò, è vestita con diversi colori e materiali. Contro il freddo ha una coperta variopinta poggiata sulle spalle. I capelli grigi tendenti al miele sono un covo di fili di stoffa e bottoni in legno. Mi invita a sedere su una vecchia poltrona rossa, mi porge una coperta, spiega che non ha ancora avuto tempo di tagliare la legna per l’inverno ma che tanto la casa è così piena di abitanti pelosi e caldi che forse non avrà bisogno neppure di farlo. Non appena conclude infatti, vengo dolcemente assalito da una dozzina di cuccioli di varie dimensioni, due gatti belli grossi si appollaiano sullo schienale della poltrona e un incontro del tutto inaspettato, una volpe, decide di stendersi poco distante dai miei piedi, camuffata benissimo tra i cani non fosse per il colore rosso acceso.
Tutti i giorni è così? – le chiedo estasiato da quello che vedo.
– In alcuni periodi di più, in altri di meno. Questa è la norma. – mi risponde con una voce dolce ma al tempo stesso rassegnata.
– Come è partita la Bottega delle Cose Abbandonate? Anzi no, prima di iniziare. Perché “Cose”? Mi sembra una brutta parola.
– La Bottega non è mai partita, semplicemente ad un certo punto era troppo tardi per dire di no. Riguardo alle cose. In questi anni mi è stato portato di tutto, che non potevo relegarlo ad un semplice settore: animali, oggetti, ricordi. Così ho pensato ad un generico “Cose“. Tutti abbiamo qualcosa, tutti siamo una cosa.
– Ma ci deve essere stato un inizio. Il primo ricordo legato a questo luogo.
– Era autunno, mi ero appena trasferita qua dentro. La cascina sembrava nuova e non diroccata come oggi. I miei capelli non erano cenere e non avevo ancora la nomea de La pazza della cascina dove la gente abbandona le cose. Ricordo che stavo tirando su le foglie in giardino quando alla radio fermarono la musica per dire che poco distante da qui, nel fondo di un pozzo, erano stati rinvenuti tre cuccioli di cane, abbandonati o gettati non si capiva, e che la situazione per loro era critica. Ero sola, ho pensato subito che mi avrebbe fatto comodo un po’ di compagnia così sono salita sulla mia Panda e mi sono precipitata sul luogo del ritrovamento. Erano tre sacchetti di latte dalla forma indefinita, non sembravano ancora cani. Li ho presi e tenuti con me e allattati notte e giorno finché non sono diventati, lo avrai visto, le colonne portanti di questo luogo.
Guardo fuori dalla finestra, i tre bestioni fieri nella loro posa più spavalda sono ancora attorno alla mia macchina.
– Quindi hai dato tu il via a tutto.
– Io ho accolto loro, poi poco alla volta, altro ha voluto farsi accogliere. La casa più vicina alla mia sta a 30 chilometri più o meno. Lì viveva un signore anziano, la sua unica compagnia erano svariati gatti. Un rapporto di simbiosi quasi. Un giorno l’anziano morì. I figli, che non avevano voglia di occuparsi della proprietà del padre, sbarrarono la porta di casa, chiusero le finestre e si dileguarono mettendo in vendita la casa, che resta tutt’ora invenduta. I gatti si ritrovarono senza un luogo dove stare. Così una mattina mi svegliarono i cani con il loro abbaiare, guardai fuori dalla finestra e in giardino c’erano da una parte i miei tre guardiani, immobili, e dall’altra undici gatti ordinati in attesa di un mio cenno. Sono uscita, li ho salutati e siccome anche loro erano stati abbandonati, ho deciso che potevano usare i miei spazi. Da quel momento in poi si deve essere diffusa la voce tra gli animali perché ogni giorno è arrivato un nuovo abitante.
– Sempre cani e gatti?
– Non sempre. Il ricordo più straziante è di questa cerva ferita da un cacciatore che entra in giardino in fin di vita. Aveva perso un sacco di sangue ed era visibilmente gravida. Non so come succedano queste cose, ma quando ti ritrovi davanti all’estremo, riesci a compiere azioni che mai pensavi avresti compiuto. Così l’ho aiutata a partorire e mi sono presa cura del cerbiatto finché lui ha voluto restare. Ricordo lo sguardo con la madre. Non voleva abbandonarlo, ma non aveva altra scelta.
– Inizialmente hai detto: animali, oggetti, ricordi. Cosa intendevi dire? Io qua vedo solo animali.
– Gli animali sono la cosa più evidente e viva. Ma se guardi bene, noterai anche tutto il resto.
Mi alzo dalla poltrona, girando piano per la stanza. Un’infinità di cimeli erano disposti alla rinfusa su ogni superficie. Piccole statuine in ceramica, pacchetti di sigarette. Una libreria stracolma di diari scritti a mano. Orologi fermi, fotografie di persone di tutte le etnie, una cesta piena di scarpe da bambini. Bambole, giocattoli. Biglietti da visita, cartoline, rullini non sviluppati, tazze rotte e una credenza piena di strane pietre luminose.
– È tua, tutta questa roba?
– Neanche uno di questi oggetti è mai stato inizialmente mio. È sempre arrivato qua perché qualcuno ad un certo punto, ha dovuto abbandonarlo.
– Cosa intendi con questo “abbandonare”? Le Cose Abbandonate, non sono forse volutamente perse? Non si cerca di dimenticarle?
– Qua ti sbagli. Abbandonare è un’azione totalmente diversa da dimenticare o perdere, o da “lasciare”. Dimenticare o perdere comporta una distrazione. Un voltarsi e smarrire qualcosa. Rinunciare senza consapevolezza. Abbandonare è un processo, quasi mai facile. Ogni oggetto che vedi è qua perché non si è più stati in grado di portarlo con sé.
Si alza dalla poltrona e viene verso di me. I gingilli tra i capelli emettono un tintinnio delicato, gli animali corrono sul posto appena lasciato per approfittare del calore della signora.
– Questo è stato il primo oggetto. Un ragazzo, non più che ventenne, un giorno arriva e me lo porge. Dice che non può più vivere ricordando quello che ha fatto per ottenerlo. Era questo orologio d’oro, vedi? Ha le lancette ancora ferme al momento in cui me lo ha consegnato.
– È molto bello, di sicuro di valore. Ti ha detto perché te lo stava consegnando?
– Era cresciuto sulla strada lui, non aveva mai conosciuto altro al di fuori di violenza e furti. Poi però aveva trovato lavoro presso un cantiere, un’esperienza nuova, guadagnarsi da vivere onestamente. Si recava ogni giorno puntuale ed era sempre l’ultimo ad andarsene. L’impresa edile andava bene, lavoro ce n’era e lui si trovava a suo agio. Il capo, forse perché non aveva mai avuto un figlio maschio, lo aveva preso sotto la sua ala e gli insegnava trucchi del mestiere sempre nuovi. La fame di conoscenza era senza limite e tra i due nacque un rapporto profondo, tanto che il capo gli offrì di andare a vivere nell’appartamento sotto al suo, senza chiedergli di pagare l’affitto. Il ragazzo andò e alcuni anni furono di grande quiete. Un giorno era da solo in casa del capo, era domenica e le spalle e le mani gli facevano male. Non sopportava più il doversi spaccare la schiena, voleva una soluzione facile. Certe abitudini del passato sono difficili da perdere, così fece una cosa che fino ad allora non aveva mai fatto: frugò nella casa del capo alla ricerca di valori. Trovò questo orologio d’oro. Ci ragionò su per parecchio tempo, senza sapere cosa fare, poi contattò una vecchia conoscenza per vedere quanto gli avrebbe fruttato. Il capo tornò a casa mentre lui era al telefono e sentì tutta la conversazione. Non urlò e non fece alcuna scenata. Aspettò che lui concludesse la telefonata e gli disse con molta calma che se lui non avrebbe cambiato modo di essere, avrebbe dovuto rinunciare al lavoro e alla casa. Ci fu una colluttazione. Il ragazzo scappò con l’orologio ancora in tasca e fuggì nella notte. La mattina era qua fuori con l’orologio in mano. Mi raccontò tutta la storia e concluse dicendo che non poteva portarlo più con se, che voleva tornare indietro ma per farlo doveva abbandonare ciò che era. Come con la cerva, senza sapere come mai, anche questa volta mi era chiaro quello che dovevo fare. Gli dissi di lasciare l’orologio sul tavolo, di abbandonarlo lì e di andare via e di non essere più la stessa persona di sempre. Lui si fidò di me.
– E il suo capo, sta bene?
– Dopo aver abbandonato l’orologio tornò da lui e chiese scusa. Lavorano ancora insieme. Il capo oramai è vecchio e tra poco andrà in pensione e lascerà al ragazzo tutta l’attività. Certe volte, dobbiamo abbandonare qualcosa per poter andare avanti. Lui doveva abbandonare la sua indole a cercare sempre la via facile.
– Ogni oggetto qua ha una storia simile?
– Ogni cosa qua ha una storia simile. Ogni diario in quella libreria è una persona che non riusciva più a sostenere il peso della sua memoria e l’ha abbandonata da me. Ogni fotografia che vedi, è un amore che doveva essere messo da parte. Tutto ha un costo. Non puoi nemmeno immaginare quanto può pesare il gesto dell’abbandono, ma quanto esso sia necessario.
– Non pensi che abbandonare sia una scelta facile?
Sospira, mentre apre la credenza contenente le pietre luminose.
– Pensi davvero che possa esserlo? – dice e mi pone in mano una pietra di piccole dimensioni, verde tendente giallo, tiepida, liscia.
– Non capisco. Cos’è?
– Si erano sposati che lei era ancora minorenne, però al tempo si faceva così, c’era la guerra e non si badava a queste cose. Lui appena più grande, lei diciassette. Lui partì e le scrisse ogni giorno. Le raccontò ogni cosa. Lei rispose sempre e ogni volta concludeva dicendo “ti aspetterò, dovessi tornare anche tra cent’anni”. Poi lui non tornò più. Finì ucciso. Lei lo capì perché le lettere smisero di arrivare. Però non smise di aspettare. Per quasi cento anni. Una donna longeva, non c’è che dire. In casa di riposo pensava ancora a quel suo marito morto in guerra ma poi conobbe un altro uomo, anche lui reso una tartaruga dalla vita. Non so se per demenza senile o altro, ma in lei scoccò qualcosa, come una scintilla. La stessa di quando aveva diciassette anni. Ma non sapeva come fare perché in lei giaceva ancora la vecchia promessa fatta al marito. Così venne qua, accompagnata da un infermiere, e mi raccontò tutto. Mi disse che voleva provare ad amare ancora una volta ma che per farlo doveva abbandonare la promessa che aveva custodito per quasi tutta la sua vita. Le feci dire la promessa a questa pietra, che subito cambiò colore. Sono stati sposati un anno prima di morire. In casa di riposo tutti dicono che non avevano mai visto una coppia più felice. Ora dimmi. Quanto pesa la pietra che hai in mano?
– Non saprei, alcuni grammi.
– Per te. Subito dopo aver sussurrato la promessa, la pietra le cadde dalle mani da quanto pesava, e atterrò al suolo.
Spostò un tappeto da sotto i nostri piedi. Sul pavimento in legno, c’era come un foro, un solco. Feci una prova. La pietra entrava alla perfezione.
– In mano tua sono pochi grammi. Nelle sue era il peso di un’intera vita.
Restai ore a farmi raccontare la storia di ogni oggetto, animale, cosa, persona. La bottega, da semplice luogo di raccolta, era diventato un deposito delle emozioni dell’esistenza umana. E animale.
– Ma quindi, se io volessi, potrei prendere qualcosa da qui?
– Certo. Alcune cose abbandonate sono solo storie a metà. O idee, progetti, sogni. Puoi prenderle e proseguirle tu. Se vuoi un animale, solo i miei tre cani non si possono prendere. Il resto, se vuole venire con te, smette di essere abbandonato e diventa tuo compagno di viaggio.
Mi rimaneva solo una domanda.
– Perché fai tutto questo?
– Ma è ovvio. Secondo te perché nel fiore della mia età, mi sono trasferita qui, lontano da tutto e tutti?
– Non riesco ad immaginarlo.
– Perché anche io, sono una cosa abbandonata.
La salutai con un bacio sulla fronte. Fuori i tre cani smisero di fare la guardia alla mia macchina. Il viaggio di ritorno fu pesante il doppio rispetto quello dell’andata ma almeno non ero solo. Un gatto era entrato senza che me ne accorgessi e adesso dormiva nel sedile del passeggero al mio fianco. Aveva scelto lui di venire con me. Non era più abbandonato.