logo yomer

Il secondogenito


Romanzo in lavorazione, titolo provvisorio.

Primo capitolo

Nel corso degli anni aveva perfezionato la postura da adottare durante i lunghi viaggi in macchina che lo portavano quasi settimanalmente da una parte all’altra dell’Italia ad inseguire l’ossessiva passione del padre nei confronti del calcio.
Era cresciuto parecchio negli ultimi dodici mesi ma questo non gli impediva di restare ancora perfettamente disteso con le gambe lungo il sedile posteriore, la testa poggiata a 45° sulla maniglia d’apertura della porta con il libro che poggiava sulla piega che si formava tra la fine del petto e l’inizio della pancia pronunciata e molliccia, oggetto di derisione da parte dei compagni di classe. Non era uno di quei bambini che spiccava per la sua bellezza, il viso era eccessivamente tondo, i capelli troppo folti e lisci, sistemati in un caschetto ordinato e innocente che veniva puntualmente arricciato da una sudorazione della fronte copiosa ed indipendente dalle variazioni climatiche, i denti erano storti e di soldi per un apparecchio odontoiatrico neanche se ne parlava, i piedi a papera e l’andatura insicura lo rendevano la dimostrazione dell’assenza di Dio agli occhi del padre che, guardandolo, vedeva già compromesse le sue speranze di avere un figlio promettente ala destra nel campionato italiano. Però, in tutto questo male, aveva il dono del saper leggere in ogni circostanza. La macchina poteva viaggiare su di un’autostrada pulita che lui leggeva senza problemi, poteva percorre strade accidentate, sconnesse, ciottolate, tornanti a gomito in un susseguirsi di curve ottovolanti che lui se ne stava buono con gli occhi fissi sullo scorrere delle pagine, capace di escludere completamente la realtà esterna. Questo dono però non era innato, se l’era guadagnato con il tempo, vomito su vomito. All’età di 3 anni ricevette in regalo il suo primo libro illustrato, una storia inutile su di una volpe che perdeva la coda e correva per tutto il bosco alla ricerca del pezzo mancante, scritto per bambini un po’ più grandi di lui era l’unico libro ad averlo attratto in autogrill e il padre, pur di arrivare puntuale alla partita, glielo aveva comprato. Si era sistemato dietro, ancora impacciato ed inesperto, e avevo iniziato a leggere le figure. Dopo pochi minuti il libro era stato sommerso dalla colazione, le pagine rese un tutt’uno di liquami, il padre urlava, la madre (arriverò fra poco a parlare di lei) cercava di salvare il salvabile utilizzando fazzoletti e salviette umidificate all’odore di limone stantio. I due genitori presero a litigare, volarono parole pesanti, il piccolo ebbe una crisi d’asma, la macchina accostò nello spavento generale, il padre perse la partita e non gli parlò per due mesi, la madre invece si guadagnò due belle sberle in pieno volto nella piazzola emergenze a 13 chilometri dall’uscita più vicina. Quel giorno comprese che se voleva riuscire a leggere in santa pace, senza dover sentire gli infinite litigi dei genitori, doveva imparare a chiudere ogni canale esterno e concentrarsi solo sul libro. Così passò gli anni dal terzo al sesto a leggere ogni cosa, dalla letteratura per bambini, romanzi di pirati, avventure nello spazio, storie d’amore, maghi e magie, castelli e draghi, ricette di cucina, giornali di gossip, edizioni economiche Harmony, gialli dove non sempre l’assassino era il maggiordomo, polizieschi dove non sempre il cattivo era il ladro e la Bibbia. Insomma, tutto quello che gli autogrill potevano offrire, lui lo aveva letto prima di compiere 6 anni. Qualunque altra famiglia si sarebbe sorpresa davanti a tale dimostrazione di intelligenza e dedizione, o leggera forma di autismo che dir si voglia, ma non la sua. Come dicevamo, il padre era un appassionato di calcio, non di quelli normali, uno di quelli gravi. Aveva non solo pagato per potersi permettere l’abbonamento al canale della tv a pagamento dedicato alla sua squadra del cuore, il Milan, ma aveva chiesto anche un prestito in banca per poter seguire ogni partita della stagione 2007/2008 e il colmo era che l’aveva ottenuto. Lui, con la licenza media, in cassa integrazione da 3 anni e con un mutuo di oltre 200mila euro per la casa che gli pendeva sulla testa (dove oramai non passava più molto tempo dato che era sempre in giro) era riuscito a farsi prestare una notevole cifra grazie alla quale si era fatto montare un dispendioso impianto a gas sulla macchina, una Ford Focus blu cobalto, e aveva acquistato tutti i biglietti per la stagione calcistica, per lui e il figlio silenzioso e riservato che leggeva sempre e che non riusciva a capire mai. Lui così semplice, il figlio così complesso. La moglie aspettava in macchina, a lei non interessava, se la portava dietro solo per avere un po’ di compagnia durante il viaggio anche se non si sarebbe mai detto dato il contenuto di quei dialoghi, che quasi sempre terminavano con lei che era una vacca e non doveva aprire quel cesso di bocca. Adesso il piccolo aveva 8 anni, non prendeva più i libri in autogrill, si faceva accompagnare dalla madre (si sto per arrivare a parlare di lei) presso la locale libreria a tre piani che aveva aperto da poco in centro e lì acquistava quello che voleva. O almeno così credeva lui, la madre gli diceva di prendere un libro, di portarglielo e poi andare alla cassa e dire che aveva smarrito i genitori. La madre prendeva il libro (c’erano regole piuttosto ferree a riguardo: non doveva essere più grande di venti centimetri per venti e non poteva avere più di trecento pagine) e se lo infilava sotto l’abbondante seno. Dire abbondante è dire poco, era abominevole, una singola mammella pesava da sola sei chili, bastava sollevarla, appoggiare sotto il libro, far aderire l’adipe sulla copertina, aspettare che una lieve sudorazione formasse uno strato di naturale collante ed era fatta, il libro scompariva in mezzo a quello spettacolo di seni. Non appena veniva fatto il nome del bambino alla cassa lei accorreva urlante e disperata, gli diceva che non ne poteva più di questa insolenza, che non lo avrebbe mai più portato in quel luogo, che doveva finirla di scappare. Il piccolo piangeva, niente lo spaventava più della minaccia di dover rinunciare ai libri, la madre lo prendeva per una mano, lo strattonava e, chiedendo scusa alle commesse, si metteva a piangere anche lei. Veniva scortata fuori dalla sorveglianza che rimaneva sconvolta dai suoi occhi. Di lei non si può dire che fosse bella, era piuttosto bassa, piuttosto abbondante, piuttosto anonima con quel taglio di capelli da parrucchiere cinese a 15€ tariffa fissa ogni mercoledì. Però aveva due occhi che se bagnati con la giusta quantità di lacrime, splendevano come quelle pietre che si trovano al mare, quelle che vedi brillare sotto le onde e pensi che siano le pietre più belle e lisce del mondo, allora ti immergi per prenderle, le porti in superficie e quella bellezza dura solo pochi secondi perché poi il sole le asciuga e loro tornano ad essere semplici ciottoli di origine arenaria, lisciati da secoli di ondeggiare marino. Però quando erano pieni di lacrime, ecco, erano stupendi, e lei lo sapeva ed infatti giocava la carta occhi bagnati solo quando era strettamente necessario. Franco, questo il nome del bambino, nome scelto in onore del grande Franco Baresi. Nome orribile per un bambino a detta di tutti, anche dei milanisti più sfegatati. Franco, usciva ogni volta sconvolto da questo strano shopping che faceva con la madre ma, non appena girato l’angolo e lasciato che lei sollevasse il seno per liberare il libro, tornava ad essere tranquillo. Allora sorridendo tornavano verso la macchina, il padre era già arrabbiato, la partita non sarebbe iniziata prima delle 20:30, era ancora mattina presto e lo stadio questa settimana distava solo un paio d’ore di macchina ma lui era così, quando giungeva il giorno della partita cambiava totalmente. Smetteva di parlare con le parole, aveva sviluppato tutta una serie di grugniti di disapprovazione con i quali intimava alla moglie e al figlio di stare zitti, di non rompere con le soste per andare in bagno, di non cambiare il canale radio con le informazioni sulla viabilità (era letteralmente terrorizzato dalle code in autostrada) e un grugnito speciale che voleva dire sia “ho fame” che “ho sete”, stava poi all’abilità della moglie ricordarsi da quanto non beveva e da quanto non mangiava per essere in grado di soddisfare questa richiesta. Aveva preparato i panini con la carne alla pizzaiola, dieci cocacole galleggiavano nella borsa frigo, un thermos di caffé freddo era poggiato nell’apposito foro vicino al freno a mano. Tutto era pronto con almeno nove ore d’anticipo. Franco aveva assunto la posizione da lettura, quella che gli stava causando una leggera scoliosi ma che gli permetteva di leggere per ore senza informicolire neanche un arto. Era un romanzo russo, pesante, triste, inadatto al viaggio, inadatto soprattutto alla lettura specie di un bambino di otto anni ma a lui piacevano i romanzi crudi della russia di un paio di secoli fa, gli piacevano più di quelli neorealisti italiani, più che altro perché i russi bevevano e piangevano e quando bevevano sulle loro disgrazie i loro pianti erano lievemente più grotteschi, così lui sorrideva nel pensare a queste facce rosse rovinate dalla vodka che non avevano nulla se non il freddo e l’alcolismo. Quelli italiani invece, quando piangevano, piangevano e basta, al massimo qualcuno puzzava di vino ma il vino non è la vodka, il vino ti colora le labbra, ti trucca per renderti ridicolo e poi è il sangue di Cristo, non puoi ridere di qualcuno che è in miseria e beve il sangue di un altro essere umano. Non si fa. Allora leggeva i romanzi russi e ignorava tutto. Lasciava perdere il rumore delle api che si schiantavano sul parabrezza, i grugniti del padre che forse adesso aveva sete, i racconti della madre che era andata da poco a farsi tagliare i capelli da Chao Jin e non più da Xiu Lin perché “quella stronza ha osato dire che m’ha vista ingrassata”, dall’alto di cosa poi i cinesi si permettono di giudicare noi non lo capiva, lei era italiana, mezza francese, lei aveva il sangue dell’Europa che scorreva nelle sue vene, lei non poteva essere criticata da una cinese del cazzo che al massimo poteva aspirare a lucidare dei ravioli al vapore. Franco ignorava questo, era da un’altra parte, non sentiva i grugniti del padre che stavano diventando sempre più parole, quasi urla, mentre ordinava alla moglie di stare zitta, che “c’è coda da qualche parte” e lui non riesce a capire dove, poi altre due api si schiantano sul parabrezza, due rumori forti.
– Saranno api da mezzo chilo.
– Come fai a dire che sono api – chiede la moglie
– Le vedo un attimo prima che si schiantino, vedo le strisce gialle e nere – risponde
– Potrebbero essere vespe.
– No, lasciano una scia di polline viola, non vedi?
– Il polline non è viola deficiente.
– Questo lo è, guarda bene.
Un’altro rumore forte, un’altra ape a pezzi.
– Stiamo attraversando uno sciame di api meteoriti – dice il padre ridendo, poi preme il piede sull’acceleratore. Ha questa assurda convinzione che se arriva prima nel luogo dove c’è la coda ed inizia a suonare il clacson come un forsennato allora essa gli farà il favore di districarsi davanti al suo volere e lasciarlo passare.
– Speriamo non ci sia un incendio, non sai quanto è fastidioso dover aspettare che lo spengano.
Lei lo sapeva, ricordava Milan-Empoli e la coda di 34 chilometri e 49 gradi. Franco continuava a leggere, non sentiva più le parole dei genitori, sentiva solo lo schioccare delle api. C’era una strana regolarità in quelle esplosioni, prima una, ciok, poi due, cik ciok, poi una, ciok, poi tre, ciok ciok cik. Così, a ripetizione. Sincronizzato al sussultare delle ruote sull’asfalto ogni 12 metri, sulle pieghe naturali create per evitare che l’espansione del materiale dovuta alla calura estiva non generasse problemi di circolazione su quel ponte. Creavano un sottofondo quasi musicale, sinceramente minimal. La madre stava urlando, si era rovesciata il caffè freddo sui pantaloni, il padre la insultava, le urlava più forte di stare zitta, accelerava ancora, le api sui vetri l’avevano distratta, una aveva fatto una piccola crepa, la guardava con sospetto
– Che genere di api possono arrivare a rompere i vetri?
– La colpa è tua che stai andando troppo veloce!
– No la colpa è tua che non chiudi quella fogna piena di merda e non mi lasci guidare in pace. – Si erano amati una volta, tanti anni fa, qualcosa glielo ricordava, tipo il tatuaggio che lui si era fatto sul braccio, sotto la scritta Milan Campione c’era il nome di lei, un po’ sbiadito, quello non era mai andato a ribatterlo, Claire. Ciok. Sembrerà strano, ma secondo lei anche quest’ape si era schiantata nello stesso posto di quella di prima, adesso che lo notava, le due macchie di polline stranamente viola erano tutte e due sempre nella stessa posizione, precise, una sopra la sua testa, una sopra quella del marito che oramai aveva abbandonato i grugniti, tralasciato le parole e sostituito le urla con le bestemmie. Il piede era ancorato sull’acceleratore, la macchina spingeva quanto poteva, l’impianto a gas aveva sì permesso un notevole risparmio nella spesa del carburante ma aveva fatto perdere in velocità quei dieci chilometri all’ora che a parer suo gli facevano sempre trovare coda. Ciok Cik.
– No ti dico che è strano, guarda, il buco continua ad allargarsi!
– Ti dico che non si può formare un buco, è un vetro antiproiettili.
– E tu avresti pagato per un vetro antiproiettili? Sicuro? E quando? Quando mai ti è servito?
– Era compreso nel prezzo della macchina, fidati, ho detto antiproiettili ma forse mi sono sbagliato, sono quelli che non si rompono, che fanno tutte le grinze, che si spaccano ma non lasciano passare nulla.
Cik Ciok.
– Allora mi sento tranquilla, se ci cade una trave di ferro sul vetro non si rompe, rimbalza!
– Sei una stronza, non sai un cazzo.
Cik. Cik.
– Se non so un cazzo come me lo spieghi questo? – e indicò la rottura sempre più larga.
– Te lo spiego dicendo che devi stare zitta, troia, che non capisci un cazzo, che è meglio se taci, troia.
Franco non sentiva, erano solo parole, lui le parole le leggeva, con le orecchie sentiva solo le api. Ciok, cik, cik, ciok.
– Vai piano.
– Col cazzo.
– Rallenta.
– No.
– Il buco si sta allargando…
Ciok.
– Rallenta Cristo Santo!
Ciok ciok ciok.
– No, stai zitta.
Ciok.
– Sono solo api, che vuoi che succeda?
Cik. Cik.
– Sono tante api, troppe, e tutte sullo stesso punto.
Ciok.
Franco resta steso, è rilassato. Ciok ciok ciok ciok.
– Rallenta, ti prego, fallo per Franco.
– Franco sta bene, guardalo, legge – Ciok, ciok. – Legge sempre.
Cik, ciok ciok, cik cik.
– Fallo per me, ti prego, rallenta.
Ciok, ciok, ciok, ciok ciok.
– Manca poco, la vedi la fila laggiù? Adesso arriviamo e ci fermiamo.
Ciok ciok ciok ciok ciok ciok.
– Si ma tu rallenta.
Ciok, ciok, cik cik cik cik, ciok.
– Fra poco.
Ciok.
– No, adesso!
Ciok.
– Stai zitta!
Ciok.
Ciok.
E resta zitta. La macchina non rallenta, si fionda a 146 chilometri orari contro il mucchio di auto ferme, tutte schiantate tra di loro. Le ultime due api hanno trapassato il parabrezza come fossero fatte di metallo e trapassato a loro volta la fronte prima del padre, che si è accasciato sul volante mollando il piede pesante sull’acceleratore, poi della madre, che è restata immobile con un rivolo di sangue che le scendeva dal sopracciglio destro alla guancia. Franco ha sentito tutto, ma non c’ha pensato, era in Russia, non in macchina, ha sentito solo lo schianto ma la posizione assunta e perfezionata nel tempo lo ha stranamente protetto da tutto, come in un nido. Torna poco alla volta a percepire la realtà, l’acqua gelida della borsa frigo gli si sta rovesciando sulle gambe. Chiude il libro, nota di essere sottosopra, si sporge in avanti e vede i genitori finalmente zitti, tutti e due, e un po’ sorride, poi vede il sangue, sente che non respirano più, e allora sorride di meno, non ci saranno più tanti libri per lui. Guarda fuori, vede fumo, fiamme appena percepibili, nessun grido, un silenzio da estate piena. Solo un ronzare costante di api. A fatica si dirige verso il finestrino, è spaccato in mille pezzi, vetri antiproiettile un cazzo, fa per tirarsi fuori quando si taglia con una scheggia, un piccolo grido, tira la mano a sé, poi sente dei passi, vede dei piedi scalzi avvicinarsi, sono puliti, camminano nel vetro e non si tagliano, calpestano macchie d’olio e non si sporcano. Una mano entra nell’abitacolo, lo afferra, con forza lo tira fuori e lo mette in piedi. Gli toglie di dosso la polvere dell’incidente, gli sistema i capelli arruffati, gli tocca la mano tagliata che guarisce in un istante. Franco non capisce, guarda quest’uomo, è bellissimo, l’uomo più bello mai visto, è luminoso, brilla, profuma di fiori, in quella carneficina di corpi dilaniati, di macchine divelte, di sangue che scorre misto a benzina, lui comunica pace, gioia, voglia di vivere, di perdonare tutto. Lui e le api che lo circondano.
– Chi sei? – chiede Franco.
– Come chi sono? Non mi riconosci? Non capisci? – risponde lui e la sua voce racchiude tutte le melodie più intense mai create dall’uomo.
– No… – dice Franco con un filo di fiato.
– Sono il Salvatore, e sono qui per te.